Durante la mia esperienza al servizio dell’AMIP più di una volta mi è capitato di raccogliere confidenze particolari da parte di alcune pazienti affette da ipertensione polmonare: “Da quando mi sono ammalata per la mia famiglia sono diventata trasparente” oppure: “L’importante è che io continui a svolgere il mio ruolo. Nessuno fa caso alla mia debolezza” ancora: “Signora, i miei cari mi stanno seppellendo prima del tempo!” etc. Donne che si rivolgono all’associazione per confessare ad una sconosciuta, pronta ad ascoltarle, l’emarginazione provocata da parenti ed amici a causa di una malattia cronica che si protrae nel tempo. Un disagio che viene ammesso con vergogna ed incredulità e, per assurdo, accompagnato da sensi di colpa per essere diventate improvvisamente un peso per la famiglia.
Per continuare ad essere accettate, alcune fingono una normalità che non è più la loro, quasi negando la malattia che fatalmente ripresenta i suoi sintomi. Solo con altre malate riescono ad aprirsi e ritornare se stesse perché sanno di essere comprese. Parlo di donne perché l’ipertensione polmonare, come sapete, colpisce soprattutto il genere femminile, madri e mogli con un pesante carico familiare. Quando la malattia colpisce gli uomini lo scenario sovente cambia. L’istinto materno delle consorti, delle figlie, nella maggior parte dei casi, li protegge.
In realtà molte sono le famiglie che circondano i congiunti di entrambi i sessi, colpiti da una patologia cronica, di attenzioni e di amore ma almeno un terzo dei malati non riceve questo trattamento e vive la malattia nella solitudine e nell’indifferenza del prossimo e dei familiari che desiderano proseguire la vita di sempre. Semplicemente l’incapacità di relazionarsi con chi è colpito dal male li allontana, li spaventa. In una società che vorrebbe archiviare: malattia, vecchiaia, morte, la congiura del silenzio trova terreno fertile.
Spesso amici e parenti, quando vengono a conoscenza dell’infelice diagnosi, sviluppano una specie di cordoglio anticipato. La conseguente negazione dello stato di malattia spinge l’infermo all’emarginazione. A causa di fragilità, insicurezze, timori di nuove responsabilità le persone “care” preferiscono ignorare la malattia mentre il malato, a cui è stata stravolta la vita, resta incredulo ad affrontare una realtà devastante nell’indifferenza di chi ha accanto. Vivere contemporaneamente la sofferenza causata dalla malattia unitamente alla mancanza di relazioni è per un malato alienante e molto difficile da sopportare. La sua difesa è sviluppare un silenzio che urla, che accusa.
Rimasto solo con se stesso, il malato inizia a provare sentimenti negativi. Cresce la tentazione di lasciarsi andare, peggiorando una situazione già complicata. Aumenta il vuoto causato dalla solitudine ed il malato, anziché trovare risorse per contrastare la malattia, lentamente si avvia verso la depressione e la pura sopravvivenza fino a spegnersi.
“Cosa dovremmo dire noi?” ho sentito ripetere più volte dai familiari oberati da tanti fardelli, divisi tra affetti e responsabilità, tra corse continue per lavoro e visite ospedaliere. Subentra in loro la stanchezza di assistere parenti che si lamentano, che pretendono, che diventano egoisti o che semplicemente non hanno la forza di accettare la malattia. Senza dubbio esistono dei pazienti così ma, per quanto riguarda la mia esperienza, vi assicuro è una minoranza. Il malato cronico è spesso un soggetto abituato a sopportare, talvolta passivo. Durante le lunghe attese in ospedale, mi ha sorpreso assistere a delle scene poco edificanti, anche da parte del personale ospedaliero. Quando ho chiesto al paziente perché non si ribellava, la risposta è stata quasi sempre la stessa: “Ho paura che mi trattino peggio”.
Bisogna altresì riconoscere che confrontarsi con una situazione di disagio che si protrae nel tempo non è certo facile e rende tutti sicuramente delle vittime, i malati e chi li circonda, con la differenza che la persona sana ha senza dubbio molteplici risorse. Al contrario il malato cronico non può prendere le distanze dalla sua disabilità ma solo imparare a conviverci al meglio, lavorando su se stesso per trasformarsi sempre di più in un soggetto attivo e propositivo che interagisce con il prossimo e i suoi familiari, migliorando di conseguenza la qualità della sua vita e allontanando lo spettro della solitudine e della depressione.
I familiari hanno il compito di non lasciare soli i propri cari, di incoraggiarli a reagire, di coinvolgerli nelle attività quotidiane, di rassicurarli sul loro aiuto, di prepararli alle inevitabili difficoltà. E’ necessario essere sinceri per combattere insieme la realtà della malattia e riuscire ad attraversarla compatti, uniti: medici, pazienti, familiari. E’ una battaglia che va affrontata con lucidità, empatia, professionalità e possibilmente con amore e rispetto reciproci.
Questo è quanto tutti ci auguriamo.
Maria Pia